
Narcos: La musica è la stessa, ma manca qualcosa
La terza stagione di Narcos è all’altezza delle precedenti, la colonna sonora, la storia raccontata, il taglio giornalistico che si mischia al romanzato in una sintesi di sostegno reciproco; il ritmo: compassato, ma incalzante, capace di sfruttare i giusti nessi narrativi favoriti da una regia che si fa trovare pronta, inquadratura dopo inquadratura, nell’arte di raccontare. Eppure c’è qualcosa nel meccanismo perfetto che si è perso.
Andiamo per esclusione:
- Non è la capacità di indurre l’utente a vedere un episodio dietro l’altro fino a quando la serie non si conclude, la “dipendenza” è rimasta la medesima rispetto alle stagioni precedenti.
2. Non è nemmeno il plot story; in senso stretto, la storia, rimane intrigante.
3. Non è la colonna sonora che rimane un punto di forza della serie, anche se, nella sigla le immagini messe al servizio della musica sono meno provocanti ed evocative.
4. Non è la qualità degli attori, anche se non vedere sullo schermo Boyd Holbrook nei panni di Steve Murphy insieme a Pedro Pascal ovvero Javier Peña lascia un vuoto che non colma proprio nessuno.
Ed è su questo punto che si comincia a capire quello che manca. I minuti spesi a favore dell’introspezione psicologica dei nuovi personaggi sono pochi e mal spesi. I quattro narcotrafficanti potrebbero essere interessanti, ma appaiono come macchiette con pochissime note di colore che non possono dare luogo a caratterizzazioni in grado di farli risaltare sullo schermo. Non si ha il tempo di entrare nella psiche di uno, che si passa subito ad un altro. Gli attori sono bravi, ma non abbastanza, forse non hanno le giuste battute per creare un legame con il pubblico, forse interpretano dei soggetti, realmente esistiti, che non hanno il carisma necessario per questa serie, oppure “i nuovi cattivi” della situazione non sono stati romanzati al punto giusto da tessere empatia con il pubblico. La voce fuori campo dona un tono storico all’intera vicenda, specie quando viene spesa a favore dell’introspezione dei diversi personaggi, ma è solo questa trovata narrativa, a permetterci di conoscerli meglio.
Dall’altra parte della barricata Javier Peña non è in grado di farci appassionare pienamente alla sua investigazione. Sembra un personaggio un poco consumato, come se avesse già dato tutto. Il mancato confronto con lo Steve Murphy della situazione lo impoverisce di episodio in episodio. Si sente la mancanza di una spalla che lo accompagni e la presenza della nuova coppia composta da Michael Stahl-David nei panni dell’agente Chris Feistl, e Matt Whelan nei panni dell’agente Daniel Van Ness è davvero poca cosa.
Jorge, personaggio molto importante, non è incisivo come dovrebbe essere. Capiamo il dramma che vive, ma rimane una specchio tra noi e lui. Lo stiamo guardando, non ci immedesimiamo nei suoi problemi e c’è una bella differenza.
Ricordo che durante le prime due serie avevo voglia di vedere la scena in cui avrebbero preso Pablo e allo stesso tempo volevo vederlo scappare. Non sapevo per chi fare il tifo, tanto mi ero immedesimato nel duo dei poliziotti della DEA e negli uomini di Escobar da non potere scegliere. La sensazione non si ripresenta nei nuovi dieci episodi, ed è quello che manca ad una terza stagione godibile, ma non eccezionale, forse perché, quando il centro della vicenda narrata è la storia di uno specifico fenomeno economico-sociale, ovvero il narcotraffico, avere personaggi capaci dello charme necessario non è semplice. In altre parole, non ci sono infiniti Pablo Escobar da mettere in scena.
Ecco perché la musica è la stessa, ma manca qualcosa.